
Agricoltura biodinamica: quante volte nelle scorse settimane abbiamo sentito sollevare questo tema – spesso in modo approssimativo – su TV, giornali e social? Il motivo della discussione scaturisce da una proposta di legge giunta in Parlamento, dove si equiparavano agricoltura biologica e biodinamica, che ha scatenato un’accesa campagna di demonizzazione verso quest’ultima da parte di politici, mass media e scienziati vari, terminata poi con lo stralcio della comparazione dalla proposta.
Ma di fronte alla confusione e alla superficialità con cui è stato affrontato l’argomento – arrivando a parlare di stregoneria – sorge l’esigenza di fare chiarezza tra chi invece guarda alla biodinamica con interesse, come gli appassionati di vino. A tale scopo il sommelier Stefano Tascini della delegazione AIS di Prato ha prontamente organizzato una visita alla cantina Terre di Giotto (Vicchio nel Mugello, FI), alla quale ho preso parte. Non si parla ovviamente di un luogo casuale: Terre di Giotto è la “creatura” di Michele Lorenzetti, uno dei principali esperti italiani in materia, consulente di diverse aziende (anche all’estero), fondatore con Carlo Noro dell’associazione “Professione Biodinamica” (dove organizza numerosi corsi), nonché valido vignaiolo.



Laureato in Biologia ed Enologia, Michele orienta da subito il suo percorso professionale in una direzione opposta rispetto alle scelte operate in campo agricolo negli ultimi decenni, portatrici di storture e di effetti negativi. Trova pertanto nell’agricoltura biodinamica – disciplina nata agli inizi del XX secolo grazie a Rudolf Steiner – il suo linguaggio ideale, quello dell’osservazione e dell’interpretazione dei processi che regolano il mondo della natura, così che l’intervento umano possa coglierne i frutti senza comprometterne gli equilibri.
Michele sottolinea che il suo è un approccio pragmatico, scevro da deviazioni filosofiche (a differenza dei seguaci di Steiner più ortodossi), ma rivendica con forza il fondamento scientifico del metodo da lui applicato, oggi diffuso tra centinaia di viticoltori in tutto il mondo. Per dare una dimostrazione prende ad esempio il noto corno-letame (uno dei preparati ideati da Steiner per rigenerare i terreni impoveriti dall’uso di sostanze chimiche e colture intensive), composto appunto da un corno di vacca che viene riempito di letame dell’animale e lasciato giacere circa sei mesi, prima di poter essere utilizzato per la riattivazione dell’humus, ripopolandolo di batteri. Le proprietà energizzanti del corno-letame sono tali che 200 grammi di preparato – poi diluiti in acqua e sparsi a gocce – sono sufficienti per restituire vitalità ad un ettaro di terra. Proporzioni e meccanismi del tutto normali per un esperto di microbiologia e di microorganismi, che però vengono ancora guardati con diffidenza e scetticismo dalla comunità scientifica ufficiale, poco propensa ad accogliere correnti alternative di pensiero (anche – sia detto – per le questioni economiche in gioco). A vincere almeno in parte gli ostracismi dovrebbe intervenire entro breve la pubblicazione di una ricerca dettagliata sul corno-letame, condotta da Michele in collaborazione con alcuni atenei.



I concetti dell’agricoltura biodinamica mirano dunque a far sì che la pianta cresca su una superficie sana, e che sia messa in grado in modo spontaneo di accumularne ogni sostanza nutritiva, per poi convogliarla nel frutto. La qualità deve risiedere in primis nella genuinità e nella bontà del prodotto, e questo vale anche per il vino, al di là di ogni successiva valutazione sulle caratteristiche organolettiche (non a caso il nostro ospite afferma che per lui il vino è prima di tutto un alimento).
L’avventura di Terre di Giotto inizia nel 2006, quando Michele acquista un ettaro di vigneto a Vicchio nel Mugello, in località Gattaia, tra i 500 e i 600 metri: una zona che ricorda certi terroir francesi e viene perciò destinata ad accogliere pinot noir, sauvignon blanc, riesling e chenin blanc (da una selezione massale proveniente dalla Loira). Con il 2015, dopo aver trovato appoggio per vinificare presso altre cantine, Terre di Giotto raggiunge la sua piena autonomia a seguito dell’acquisizione di un casale con annessi due ettari di vigneto risalenti al 1972, e piantati a sangiovese, canaiolo, tempranillo (che in passato veniva spesso scambiato per malvasia nera), trebbiano e malvasia di Candia.




Ampia e particolare la batteria dei contenitori per la produzione (circa 10.000 bottiglie), con vasche di cemento, botti in legno, anfore e qvevri georgiani, mentre i tank in acciaio servono solo di supporto prima dell’imbottigliamento. Sono sette le etichette sul mercato: la linea Gattaia, che conta sul Gattaia Bianco, sul Pinot Nero, sul Massimo (riesling in purezza) e sul Sauvignon; la linea Nostrale, dalle vigne vecchie attorno al casale, con Rosso, Rosato e Bianco.
Abbiamo il privilegio di assaggiare alcuni campioni a differenti stadi di maturazione, dal Nostrale rosso – uvaggio di sangiovese, canaiolo e tempranillo – pronto per l’uscita, al Gattaia Bianco – chenin blanc e sauvignon blanc – che dovrà affrontare ancora un periodo di affinamento. Tutti hanno in comune l’estrema pulizia e la ricchezza del sorso, oltre a una facilità di beva che invoglia subito a versarsi un altro bicchiere, complice anche la bassissima percentuale di solfiti presente. Una nota a parte merita il Sauvignon, omaggio di Michele alla millenaria cultura vinicola georgiana, che matura in anfore interrate (i qvevri appunto) restando a contatto con le bucce per circa 6-7 mesi: un bianco evocativo e spirituale, che rappresenta un’ideale connessione con un tempo dove il vignaiolo era guardiano della natura.



